Interposizione Reale e Fittizia

L’«interposizione reale» va ad individuare una vasta area di figure, talvolta fra di esse eterogenee, ma che hanno in comune, per così dire, un «lato oscuro» — non visibile dai terzi — costituito dalla celata «presenza» dell’interponente nell’operazione economica e dai suoi rapporti con l’interposto. Dunque, tema breve e vasto al contempo, a seconda che si soffermi l’attenzione solamente sull’aspetto che riguarda il negozio interessato dall’interposizione, ovvero si estenda l’indagine anche alle relazioni fra interposto ed interponente[1].
 
Migliori indicazioni per la definizione dell’interposizione reale si ottengono procedendo per differenze rispetto a quella fittizia. Sul punto la giurisprudenza risulta consolidata: nell’interposizione fittizia «si ha una simulazione soggettiva e l’interposto figura soltanto come acquirente, mentre gli effetti del negozio si producono a favore dell’interponente»[2]; nella prima, invece, «non esiste simulazione, in quanto l’interposto, d’accordo con l’interponente, contratta con il terzo in nome proprio ed acquista effettivamente i diritti nascenti dal contratto, salvo l’obbligo, derivante dai rapporti interni, di ritrasferire i diritti, in tal modo acquistati, all’interponente».
 
In sostanza, se l’interposizione fittizia è una simulazione soggettiva relativa che ricorre quando la parte sostanziale del contratto è diversa da quella che appare, l’interposizione reale è certamente estranea al fenomeno simulatorio. Consegue che l’interposizione fittizia richiede la partecipazione di tutti soggetti (interponente, interposto e terzo) all’accordo interpositorio, mentre nella interposizione reale il rapporto fra interposto e interponente resta celato al terzo e non vi è quindi alcuna esigenza che costui vi acconsenta. Anzi, talvolta la dottrina si sofferma sulla circostanza che, nella interposizione reale, il terzo contraente ritiene vero soggetto del rapporto l’interposto anziché l’interponente.
 
Per aversi interposizione reale è sufficiente, dunque, l’accordo fra l’interposto e l’interponente. In sostanza, la distinzione fra interposizione fittizia e interposizione reale riproduce la fondamentale distinzione tra rapporto simulato e rapporto reale oppure fra rappresentanza diretta e rappresentanza indiretta.
 
Il codice civile non disciplina espressamente l’interposizione di persona — né reale né fittizia — ma la figura non gli è ignota. Oltre che presupporla in alcune fattispecie, l’interposizione di persona è frequentemente richiamata dal codice con riguardo, per lo più, ai casi in cui è fatto soggettivamente divieto a talune persone di acquistare determinati beni o diritti.
 
In alcuni casi l’interposizione, soprattutto quella reale, costituisce un modo di operare in frode alla legge, sicché ex art. 1344 c.c. è possibile ricostruire un sistema di divieti di interposizione non espressamente disciplinati, il cui comune denominatore è di costituire rapporti contrattuali che, in assenza della interposizione, sarebbero contrari a norme imperative.
Ciò avviene, per lo più, quando taluno conclude un contratto al solo fine di consentire all’interponente di ottenere un indiretto vantaggio. Ad esempio, è stata ritenuta nulla ex art. 1344 c.c. l’interposizione reale di persona realizzata mediante il patto col quale il socio di una cooperativa edilizia (a contributo statale o comunque soggetta alla disciplina dettata dal r.d. 28 aprile 1938 n. 1165) si impegna nei confronti di un terzo a rinunciare alla qualità di socio per consentire al secondo di subentrare come prenotatario ed assegnatario di appartamento, in quanto preordinata ad eludere le norme imperative in tema di condizioni e requisiti per l’assegnazione, ovvero le disposizioni del codice civile sui limiti massimi di valore della quota di spettanza del singolo socio e sulla uguaglianza di tutti i soci nell’esercizio dei diritti di partecipazione[3] (artt. 2521 e 2532 c.c.).
 
Parimenti, risulta nulla, in quanto negozio in frode alla legge, anche l’interposizione reale nell’intestazione di un pacchetto azionario, qualora consenta al fiduciante di detenere l’effettiva disponibilità dell’intero capitale sociale e sia preordinata alla elusione della norma imperativa dell’art. 2362 c.c.[4].
 
Dunque, la caratteristica di questa forma di interposizione risiede nella assenza di obbligo, giuridico/morale, dell’interposto di trasferire il bene acquistato all’interponente, giacché anzi proprio dalla partecipazione dell’interposto al rapporto contrattuale discende la (apparente) liceità dell’atto.
Tra i parametri in ordine ai quali ravvisare gli estremi della nullità, la dottrina ha posto soprattutto in evidenza l’assenza di ogni interesse dell’interposto in relazione al bene di cui diviene titolare. L’art. 1344 c.c. permette quindi di estendere l’area dei divieti di interposizione, facendovi rientrare anche quelle dinamiche contrattuali in cui l’intervento dell’interposto ha solo funzione elusiva di una norma imperativa[5].
 
Inoltre secondo la recente sentenza n. 20398 del 21 ottobre 2005 della Corte Cass. - Sez. tributaria, la mancanza di causa nei contratti dà luogo a nullità, sulla base della stessa prospettazione delle parti, per cui resta  superflua  ogni  indagine circa una simulazione oggettiva - assoluta o relativa - ovvero  soggettiva, o circa l'applicabilità dell'art. 37, comma 3, del D.P.R. n. 600  del  1973 alla cosiddetta interposizione reale.
 
Infine con la sentenza n. 20816 del 26 ottobre 2005 la Corte di Cassazione stabilisce che l’amministrazione finanziaria, quale terzo interessato alla regolare applicazione delle imposte, è legittimata a dedurre (prima in sede di accertamento fiscale e poi in sede contenziosa) la simulazione assoluta o relativa dei contratti stipulati dal contribuente, o la loro nullità per frode alla legge, ivi compresa la legge tributaria (art. 1344 cod. civ.); la relativa prova può essere fornita con qualsiasi mezzo, anche attraverso presunzioni.
 
Con questa sentenza la Corte di Cassazione stabilisce quindi che l’amministrazione finanziaria può rilevare la nullità dei contratti stipulati dal contribuente al solo scopo di risparmio fiscale, sia in sede di accertamento fiscale sia in sede di contenzioso. Il fisco potrà, dunque, sostenere, fermo restando che la causa è nello scopo pratico, ovvero nella funzione economico-individuale del contratto, che al difetto genetico della causa per insussistenza di uno scopo economico consegue la mancata produzione di effetti dei contratti posti in essere e, di conseguenza, l’applicazione del regime fiscale più favorevole all’erario[6].



[1]    Tratto da “L’interposizione Reale” di Cosimo D’Arrigo
[2]    Cass. 21 ottobre 1994, n. 8616.
[3]    Cass. 1 aprile 1981, n. 1849
[4]    Cass. 29 novembre 1983, n. 7152
[5]    Tratto da “L’interposizione Reale” di Cosimo D’Arrigo.
[6]    Fisco Oggi, Rivista Telematica, 07/04/2006.


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