Esterevestizione

1. Normativa di riferimento

 L’articolo 73, comma 3, del D.P.R. 917/1986 stabilisce che “ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato”.

Analogamente, l’articolo 5, comma 3, lettera d), del medesimo provvedimento normativo dispone che: “si considerano residenti le società e le associazioni che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato …omissis… ”.

Le norme richiamate evidenziano tre aspetti fondamentali per considerare una società residente nello stato italiano e come tale assoggettabile alle disposizioni legislative nazionali:
-     la sede legale che deve risultare dall’atto costitutivo o dall’originario statuto;
-     la sede dell’amministrazione (che è il luogo ove hanno svolgimento le attività amministrative e di direzione);
l’oggetto principale della propria attività (che è il luogo dell’attività effettivamente esercitata da un soggetto diverso dalle persone fisiche).
 

Appare opportuno evidenziare che la giurisprudenza si è espressa nel senso che, i suddetti elementi, sono da considerare alternativi tra loro[1]; in ogni caso essi devono essere durevoli dovendo perdurare per la maggior parte del periodo di imposta.
 
Dalla lettura del testo si evince l’irrilevanza che la società sia stata costituita all’estero se uno dei suddetti aspetti è localizzato nel territorio dello Stato.
 
Pertanto per stabilire la residenza fiscale di una società formalmente all’estero basta che si localizzi in Italia anche solo uno dei tre elementi citati.
 
Ne discende che il soddisfacimento di uno solo dei criteri comporta, automaticamente, la residenza fiscale in Italia; è da escludersi pertanto una qualsivoglia gerarchia tra i criteri medesimi. In dettaglio:
 
a.  Sede Legale
 
Il primo dei tre elementi discriminanti è quello della sede legale; in tale contesto però bisogna tener conto, come la prassi conferma, che molto spesso esso rappresenta un elemento fuorviante poiché l’attività può essere svolta altrove; la localizzazione nello statuto o nell’atto costitutivo può in sostanza esaurirsi in un mero atto formale.
Occorre pertanto prestare maggiore attenzione in merito agli altri due elementi citati in precedenza ovvero la sede dell’amministrazione e l’oggetto sociale;
 
b.  Sede Amministrativa
 
La rilevanza, ai fini dell’individuazione della residenza, della sede amministrativa è sancita, oltre che dalla normativa tributaria anche da quella civilistica. Infatti l’articolo 25 della legge n. 218/95 che ha sostituito l’articolo 2505 del c.c. dispone testualmente: “Le società, le associazioni, le fondazioni ed ogni altro genere di ente, pubblico o privato, anche se privo di natura associativa, sono disciplinati dalla legge dello Stato nel cui territorio è stato perfezionato il procedimento di costituzione. Si applica, tuttavia, la legge italiana se la sede dell’amministrazione è situata in Italia ovvero se in Italia si trova l’oggetto principale di tali enti”.
 
La norma fiscale, quindi, alla stregua di quella civilistica, ha conferito rilevanza non solo al dato formale della localizzazione della sede legale della società sul territorio nazionale, ma anche a quello sostanziale  connesso  all’ubicazione  in  Italia  della sede amministrativa o allo svolgimento, nel nostro Paese, dell’oggetto principale dell’impresa e, in entrambi i casi, per la maggior parte del periodo di imposta.
 
Le indicazioni della normativa italiana trovano corrispondenza nelle disposizioni di carattere internazionale. Il modello convenzionale dell’OCSE, all’articolo 4, comma 315, individua un criterio di attribuzione della residenza correlato alla sede della direzione effettiva, ovvero del luogo in cui in sostanza vengono prese le decisioni chiave, sia di management (dirigenziali) che commerciali, necessarie per la gestione dell’impresa. E’ da intendersi, quindi, come il luogo ove si formano le scelte in ordine agli indirizzi gestionali e strategici.
 
 In tale prospettiva, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito a più riprese che:
 
-     ai fini dell'individuazione della sede dell'amministrazione, deve aversi riguardo alla situazione sostanziale ed effettiva, senza limitarsi a quella apparente[2];
-     costituisce sede effettiva di una persona giuridica "il luogo ove hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione..." della società e "... cioè il luogo deputato, o stabilmente utilizzato, per l'accentramento - nei rapporti interni e con i terzi - degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e della propulsione dell'attività dell'ente..."[3]; detta sede effettiva "non coincide con il luogo in cui si trova un recapito della medesima, oppure una persona che genericamente ne cura gli interessi o sia preposta ad uffici di rappresentanza, dipendenze o stabilimenti, ma si identifica con il luogo dove si svolge la preminente attività direttiva ed amministrativa dell'impresa...";
 
-     la sede effettiva di un ente deve essere individuata non nel luogo in cui si trovano i beni o gli uffici del medesimo, bensì in quello in cui ha effettivo svolgimento la sua attività amministrativa e direzionale[4].
 
Anche la giurisprudenza, pertanto, recependo le indicazioni formulate dall’OCSE, si è mostrata incline ad attribuire rilevanza al "luogo in cui hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell'ente e dove operano i suoi organi rappresentativi o i suoi dipendenti con poteri direttivi, ossia il luogo deputato, o stabilmente utilizzato, per l'accentramento, nei rapporti interni e con i terzi, degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e della propulsione dell'attività dell'ente”[5].
 
Si è parimenti sostenuto che si debba avere riguardo al ruolo degli amministratori che operano in concreto e non soltanto a quelli preposti all'amministrazione in via meramente formale[6].
 
Analogamente, la Commissione Tributaria Centrale ha ritenuto che vada ravvisata l'esistenza in Italia della sede amministrativa di un soggetto estero, laddove l'attività dei rappresentanti della società sul territorio italiano si sostanzi, di fatto, nello svolgimento dei compiti e nell'esercizio dei poteri tipici degli amministratori e non di quelli propri dei semplici rappresentanti[7].
 
Inoltre, in dottrina, è stato considerato un utilissimo indizio valevole ai fini dell’individuazione della sede dalla quale partono gli impulsi per la gestione societaria, l’individuazione della residenza fiscale dei membri del consiglio di amministrazione, a meno che non fosse provato che gli stessi si riunissero e deliberassero altrove.
Infine, la Corte di Giustizia ha definito la residenza come centro degli interessi di un soggetto (12 luglio 2001, C- 262/99).
 
c.   Oggetto principale dell’attività
 
L’oggetto principale dell’impresa è l’attività che essa svolge al fine di raggiungere lo scopo sociale.
 
I criteri per l’individuazione dell’oggetto esclusivo dell’attività sono dettati dai commi 4 e 5 dell’articolo 73 del D.P.R. n. 917/1986 (T.U.I.R.).
 
In particolare il comma 4 stabilisce che l’oggetto esclusivo o principale dell’attività per gli enti residenti è determinato in base all’atto costitutivo o allo statuto, se esistenti in forma di atto pubblico o scrittura privata autenticata o registrata.
In mancanza, l’oggetto dell’attività viene desunto dall’effettiva attività esercitata nel territorio dello Stato (comma 5).
 
Quindi l’oggetto dell’attività deve essere desunto dai documenti testé citati ovvero in base all’attività realmente svolta.
 
In caso vi sia contrasto tra quanto desumibile dai citati documenti e l’attività realmente svolta bisogna dare preminenza a quest’ultima.
 
Qualora si determini un caso di “doppia residenza” fiscale, come in ipotesi di società con sede legale all’estero ma con oggetto sociale o sede dell’amministrazione in Italia, la diatriba parrebbe risolvibile, secondo le disposizioni legislative vigenti, in ragione del luogo in cui si trova la sede dell’amministrazione, dovendosi rilevare, ancora una volta, che tale elemento (la sede dell’amministrazione appunto) risulti di assoluta e decisiva importanza.
 
 

2. La presunzione di residenza nel territorio nazionale

 
Nel contesto normativo appena delineato, si inserisce l’articolo 35, commi 13 e 14, del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223 (noto come “Decreto Bersani”), convertito, con modificazioni, nella legge 4 agosto 2006, n. 248, il quale ha introdotto nell’articolo 73 i nuovi commi 5-bis e 5-ter.
 
In concreto, mentre il comma 3 dell’articolo 73 del T.U.I.R. disciplina i criteri “sostanziali” di collegamento delle entità giuridiche ai fini della sussistenza della residenza, ai fini tributari, in Italia, la norma introdotta nell’anno 2006 ha carattere “procedurale” e, in particolare, inserisce, nell’ambito della disciplina della residenza, una “presunzione legale” relativa al verificarsi alternativamente di due rilevanti e continuativi elementi di relazione con il territorio dello Stato.
 
In base ad essa, quindi, si determina l’inversione dell’onere della prova[8] a carico delle società estere - che detengono partecipazioni in società italiane - gestite o controllate, anche indirettamente, da parte di soggetti d’imposta italiani.
 
Più in dettaglio, si considera esistente nel territorio dello Stato, salvo prova contraria, la sede dell’amministrazione del soggetto estero, che abbia partecipazioni di controllo in Italia e che sia, a sua volta, alternativamente:
 
a.   controllato, anche indirettamente, da soggetti residenti nel territorio dello Stato ai sensi dell’articolo 2359, comma 1, codice civile;
 
b.   amministrato da un C.d.A. o altro organo di gestione, composto in prevalenza da consiglieri residenti nel territorio dello Stato.
 
Per l’operatività della presunzione di cui si tratta, possiamo distinguere[9]:
 
a.   un controllo attivo.
L'ente non residente deve pertanto detenere partecipazioni di controllo, ai sensi dell’articolo 2359, comma 1, del codice civile, nei soggetti di cui alle lettere a) e b) del comma 1, dell’articolo 73 del T.U.I.R.. Naturalmente, rientra nel concetto di controllo diretto anche l’ipotesi in cui le partecipazioni siano detenute per il tramite di società fiduciarie. Esse, infatti, operano quali mandatarie senza rappresentanza degli effettivi titolari degli asset di partecipazione;
 
b.   un controllo passivo.
L'ente non residente deve, pertanto, in alternativa:
-        essere controllato, anche indirettamente, ai sensi dell’articolo 2359, comma 1, del codice civile, da soggetti residenti nel territorio dello Stato;
-        essere amministrato da un consiglio di amministrazione, o altro organo equivalente di gestione, composto in prevalenza di consiglieri residenti nel territorio dello Stato.



3.La residenza delle società “holding”

 
La residenza delle società “holding” pone dei problemi interpretativi più complessi rispetto alla determinazione della residenza delle società estere commerciali e industriali, in ragione della “alta volatilità territoriale” dei suoi cespiti come marchi, brevetti, partecipazioni finanziarie.
 
Le holding di partecipazioni, in conseguenza della peculiare tipologia dell’attività d’impresa, sono necessariamente localizzate nel territorio di Stati (solitamente appartenenti all’Unione europea):
 a.  i cui ordinamenti tributari prevedono specifici regimi per il c.d. passive income (dividendi, interessi, capital gains);
b.  aventi un ampio network convenzionale con numerosi Paesi, diretto a regolamentare i predetti flussi transnazionali di reddito.
 
La configurazione dell’attività d’impresa delle holding, e, come si vedrà oltre, il problema della corretta identificazione della residenza ai fini fiscali delle stesse, presenta elementi applicativi di difficile interpretazione, in considerazione dei seguenti aspetti:
a.   l’oggetto sociale (ad eccezione delle holding c.d. “miste”) consiste nella gestione di beni di secondo grado (partecipazioni) e in attività finanziarie che, per loro natura, difettano del requisito di “materialità” e “fisicità”;
b.   dispongono di un patrimonio principalmente investito in partecipazioni in società ed enti, spesso a loro volta localizzati in diversi Stati. Ciò può comportare talune difficoltà concettuali nell’individuazione del luogo concreto ove viene effettivamente perseguito l’oggetto sociale;
c.   presentano uno sfumato legame con il territorio ove è incardinata la sede legale, in quanto spesso non dispongono (neppure) di un limitato nucleo aziendale ivi localizzato.
 
Nelle configurazioni strutturali, talvolta formate per ragioni di mera convenienza fiscale, spesso si assiste alla (pressoché totale) assenza dell’elemento sostanziale nel Paese di costituzione della società (ad esempio, assenza di qualsivoglia organizzazione di uomini e mezzi, astrattamente idonea al perseguimento delle finalità economiche d’impresa) alla quale fa da contraltare l’ineccepibile formalizzazione della vita societaria della legal entity, per lo più attraverso l’attività esercitata in outsourcing da società di consulenza locali.
 
Ci si riferisce, in particolare, alle holding di mera gestione di partecipazioni in società italiane (c.d. holding passive o statiche), che non svolgono alcuna attività economica di particolare rilievo.
 
La prova contraria assume, dunque, caratteristiche peculiari con riferimento a questa tipologia di holding, la quale solitamente è caratterizzata da carenza di struttura organizzativa apprezzabile di cui possa essere verificata la localizzazione. Proprio a causa dell’eventuale assenza di significative strutture materiali od organizzative, infatti, dovrebbe essere necessariamente fornita la prova piena, vale a dire:
a.   in negativo, la prova dell’inesistenza degli elementi costitutivi della sede dell’amministrazione in Italia, ovvero;
b.   in positivo, la prova della localizzazione della sede dell’amministrazione all’estero, dando dimostrazione della sussistenza dei presupposti (es. il luogo degli atti volitivi è radicato all’estero per la maggior parte del periodo di imposta).
 
D’altra parte, si rileva come proprio la fattispecie in questione (delle holding passive) sia stata, nelle intenzioni del legislatore, quella particolarmente presa di mira dalla norma di cui all’articolo 73, comma 5-bis, del TUIR.
 
Ancor più delicata è la questione delle società estere il cui unico oggetto sia costituito da partecipazioni in società residenti in Italia. Si tratta, in questo caso, di vedere se il soggetto non residente possa esso stesso definirsi come residente in Italia per avere, quale unico bene in portafoglio, la partecipazione in una società italiana la cui attività sia svolta in Italia, e per condurre un’attività statica consistente nella percezione dei dividendi e nella partecipazione all’assemblea della società controllata.
 
In merito all’argomento, è utile sottolineare alcune riflessioni sviluppate nell’ambito del commento alla risoluzione dell’Agenzia delle entrate, Direzione centrale normativa e contenzioso - n. 312/E del 5 novembre 200758, la quale trattava proprio la fattispecie, abbastanza ricorrente, di una holding statica di partecipazioni, con sede legale all’estero.
La holding olandese in questione, infatti, si qualificava per l’applicazione della presunzione di residenza prevista dai nuovi commi 5-bis e 5-ter dell’articolo 73 del T.U.I.R. (possesso di una partecipazione di controllo in una società italiana; azionista di riferimento residente in Italia, o maggioranza dei consiglieri di amministrazione residenti nel nostro paese).
 
Secondo l’autore del citato commento, nei casi in cui l’”oggetto principale” della holding statica non può essere sensatamente riferito al luogo di svolgimento di una (inesistente) attività della holding stessa, né sembra facilmente applicabile, in mancanza di una qualsivoglia attività gestoria, il criterio della sede dell’amministrazione, potrebbe essere più forte la tentazione di identificare l’”oggetto principale” con il luogo di operatività delle società partecipate, o con la localizzazione degli assets patrimoniali.
 
È evidente infatti, prosegue l’autore, che quanto più è sfumato ed evanescente il nucleo di funzioni esercitate dalla holding, tanto più l’oggetto dell’attività potrebbe essere localizzato nel luogo in cui risiede ed opera l’unica società controllata (ovvero, in caso di controllo di più società, la maggior parte di esse).
 
 


4. Il concetto di residenza civilistica e fiscale nell’interpretazione dottrinale

 
La dottrina ha, infatti, evidenziato come ciò che rileva, ai fini della individuazione della sede dell’amministrazione, sia il dato di fatto legato all’effettiva attività operativa della società ed alle modalità del suo concreto svolgimento: la deroga al principio generale è costituita, cioè, dalla presenza sul territorio nazionale di un centro decisionale al quale far riferimento anche se, in ipotesi, la società sia stata costituita ed abbia la sede legale all’estero.
 
Si è sostenuto[10], ad esempio, che la sede dell’amministrazione, a cui fanno riferimento sia l’articolo 2505 del codice civile sia l’articolo 25 della legge 218/95, non è altro che “…il luogo in cui effettivamente si organizza e si dirige la gestione sociale, ovvero il luogo dal quale gli impulsi volitivi inerenti all’attività amministrativa delle società provengono…”, ossia “…il luogo ove è fissata, nel complessivo ambito della gestione societaria, la sede centrale di direzione, controllo ed impulso della molteplice e complessa attività economica della società…”.
 
Ancora, è stato osservato[11], che “…è l’attività amministrativa … che conta, indipendentemente da colui che la compie…” e che “…occorre indagare chi amministra in effetti e non chi è preposto formalmente a tale attività che non esercita magari in concreto...”, in quanto “…la coincidenza della forma della preposizione con la sostanza può essere … normale, ma nei casi in cui questa coincidenza non c’è occorre guardare alla sostanza delle cose e non alla veste formale e fallace…”.
 
Inoltre, si è precisato[12] che “…il significato dell’espressione “sede” … implica un riferimento spaziale…”, che riguarda la “…sede dell’attività amministrativa come attività d’impulso dell’amministrazione concreta…”, aggiungendosi che detto riferimento spaziale deve essere caratterizzato da:
a.   continuità, ossia deve derivare non da un singolo atto di gestione, ma da una pluralità di atti non occasionali;
b.   attualità, ossia deve essere presente nel momento in cui si esamina la fattispecie  concreta,  potendo  ben  accadere  che  la  sede dell’amministrazione subisca, nel tempo, variazioni in relazione alla situazione di fatto esistente.
 
A tal proposito, uno degli “indizi” di maggiore rilevanza della sussistenza sul territorio italiano della sede dell’amministrazione della società è ritenuto essere, altresì, quello della residenza fiscale, in Italia, dei membri del consiglio d’amministrazione della società.
 
Ciò, soprattutto nei casi in cui venga seguita la prassi diffusa, in special modo nei c.d. “paradisi fiscali”, di affidare la normale attività di gestione delle società “off shore” ad una società di servizi, al fine di fornire una domiciliazione ed una “sede materiale” a società prive, nel Paese di formale residenza, di beni immobili e di personale.
 
Generalmente, infatti, detta società di servizi provvede a svolgere analoga attività anche a favore di una miriade di ulteriori società ed enti: è evidente, pertanto, come in questi casi le decisioni gestionali effettive promanino comunque dall’azionista ovvero dall’amministratore effettivo, che provvede di volta in volta a fornire istruzioni alla medesima società di servizi. In dottrina, per tale ipotesi, è stato osservato[13] che deve essere valorizzato, ai fini della residenza, il luogo di gestione “sostanziale”, non potendosi che aver riguardo al luogo da cui gli amministratori forniscono di fatto le istruzioni sulla gestione societaria.
 
Secondo la dottrina, pertanto, al fine di localizzare la residenza effettiva di una società, deve indagarsi su dove sia situato l’effettivo centro di direzione dell’impresa o, comunque, sul luogo in cui siano situati gli uffici amministrativi: uffici, ovviamente, da intendersi non nel senso “materiale” del termine, bensì nel senso sostanziale, come organi di direzione e di gestione delle attività imprenditoriali.
 
È evidente che, in tali ipotesi, una interpretazione volta ad enfatizzare l’aspetto sostanziale – che identifica la sede dell’amministrazione con il luogo dal quale provengono gli impulsi volitivi inerenti all’attività amministrativa della società – tenderebbe con ogni probabilità a localizzare in Italia tale sede, vale a dire nel luogo da cui promanano effettivamente le decisioni, successivamente, per così dire, approvate dagli amministratori in senso formale.
 
Con riguardo, invece, al criterio di collegamento relativo all’oggetto principale dell’attività, è necessario in primo luogo precisare che esso trae origine dalle norme di carattere civilistico contenute nell’abrogato articolo 2505 del codice civile. Detta disposizione svolgeva la funzione di ancorare la società o l’ente al territorio dello Stato anche a motivo dell’attività economica da essa svolta, oltre che a causa dell’attività di amministrazione.
 
La medesima necessità di ancorare il prelievo fiscale ad elementi di fatto idonei a mettere in relazione il soggetto passivo con il presupposto dell’imposta ha indotto il legislatore tributario, così come quello civilistico, a prevedere, tra i criteri di collegamento, quello legato all’oggetto principale dell’attività svolta dalla società o dall’ente. Infatti, il compimento sul territorio dello Stato delle operazioni che realizzano nell’oggetto sociale è sintomatico dell’esistenza di una particolare connessione con l’ordinamento italiano tale da consentire l’assoggettamento della società a tassazione.
 
A questi fini, la dottrina si è soffermata, da un lato, sul problema della definizione del concetto di “oggetto” dell’attività delle società e degli enti, e, dall’altro, sulla valutazione del carattere di preminenza di detto oggetto rispetto alle altre attività svolte dalla società in altri Paesi.
 
Con riferimento al primo problema, si è sostenuto[14] che la localizzazione dell’“oggetto” dell’attività dipenda essenzialmente dal tipo di impresa esercitata in quanto, in linea generale, dovrà aversi riguardo, per le imprese commerciali, al luogo in cui sono svolte le operazioni di vendita o al luogo in cui si realizza il fatturato maggiore.
 
Con riguardo alla definizione dell’oggetto principale dell’attività, una corrente dottrinale sostiene che al fine di localizzare l’oggetto principale non rileva il luogo dove sono prevalentemente localizzati i beni sociali, ma quello in cui viene prevalentemente svolta l’attività costituente l’oggetto sociale.
 
Relativamente al carattere di prevalenza di una delle attività rispetto alle altre, esso può essere valutato sia in senso quantitativo, sia in senso qualitativo. In particolare, si è detto che “…se il soggetto svolgesse la sua attività unicamente in Italia o all’estero, non sorgerebbero problemi, poiché solo questa attività determina l’oggetto e dunque la residenza. Tuttavia, nel caso di più attività, il concetto di oggetto principale tende ad essere evanescente se non ulteriormente definito con una indagine sulla prevalenza quantitativa ovvero qualitativa dell’attività svolta in Italia rispetto a quella esercitata all’estero. Il problema della principalità dell’oggetto si pone solo nel caso in cui l’attività sia esercitata in più luoghi ubicati sia in Italia che all’estero, implicando così un confronto materiale…”.
 
Pertanto, a tal fine, si renderà necessaria l’analisi:
a.  della consistenza patrimoniale della società estera, per poter valutare se i beni facenti parte del suo patrimonio siano situati in gran parte in Italia, o meno;
b.  della composizione degli elementi reddituali riguardanti l’ordinaria gestione sociale, per rilevare quale consistenza abbiano le operazioni compiute in Italia o aventi ad oggetto beni o servizi collegati col nostro Paese rispetto al complesso delle operazioni poste in essere dalla società.
 
Qualora, dunque, una società possegga unicamente beni situati in Italia o vi svolga la propria unica attività, il suo oggetto principale deve ritenersi localizzato nel nostro paese, non ponendosi problemi di prevalenza.
 

5. Compatibilità con il trattato dell’Unione Europea e le convenzioni contro le doppie imposizioni

 
Per ciò che attiene alla compatibilità della norma con il diritto comunitario, essa risulta in linea con l’orientamento espresso dalla Corte di Giustizia nella sentenza “Centros” (Causa C-81/87). Nell’ambito di tale pronuncia, i giudici comunitari hanno sostenuto che “essendo il diritto di costituire una società in conformità alla normativa di uno Stato membro e di creare succursali in altri Stati membri inerente all'esercizio, nell'ambito di un mercato unico, della libertà di stabilimento garantita dal Trattato, il fatto che un cittadino di uno Stato membro che desideri creare una società scelga di costituirla nello Stato membro le cui norme di diritto societario gli sembrino meno severe e crei succursali in altri Stati membri non può costituire di per sé un abuso del diritto di stabilimento.” I giudici lussemburghesi, inoltre, hanno precisato: “(…) questa interpretazione non esclude che le autorità dello Stato membro interessato possano adottare tutte le misure idonee a prevenire o sanzionare le frodi, sia nei confronti della stessa società, eventualmente in cooperazione con lo Stato membro nel quale essa è costituita, sia nei confronti dei soci rispetto ai quali sia dimostrato che essi intendono in realtà, mediante la costituzione di una società, eludere le loro obbligazioni nei confronti dei creditori privati o pubblici stabiliti nel territorio dello Stato membro interessato”. Da tali principi discende, pertanto, che gli Stati membri hanno facoltà di determinare il criterio di collegamento di una società con il territorio dello Stato.
 
Per quanto attiene alla c.d. libertà di stabilimento garantita dal Trattato, la Commissione Europea ha definitivamente archiviato, con lettera del 04.06.2010 e successiva del 07.01.2011, la denuncia presentata nel giugno 2009 dall’Associazione Italiana Dottori Commercialisti (AIDC) per la presunta illegittimità della normativa italiana in tema di esterovestizione per violazione dei principi comunitari di libero stabilimento, proporzionalità e non discriminazione. La Commissione ha concluso la propria attività istruttoria sancendo la piena legittimità, sotto il profilo comunitario, della normativa nazionale in esame.
Per quanto invece concerne la compatibilità della norma in discorso con le convenzioni contro le doppie imposizioni necessita operare un rimando alle “Osservazioni” contenute nel Commentario all’articolo 4 del Modello OCSE, il quale non interviene sui criteri di collegamento soggettivo che ciascuno Stato seleziona per stabilire la residenza di un soggetto sul proprio territorio[15].

 
In tale ambito, da ultimo, si evidenzia che l’Amministrazione finanziaria ha individuato, da sempre, quale presupposto ai fini della concreta applicabilità della nozione di residenza, il “principio di effettività”, richiamato altresì nell’ordinamento nazionale[16].





[1] In argomento, la circolare 28/E del 4 agosto 2006 conferma che “…tali criteri sono alternativi ed è sufficiente che venga soddisfatto anche uno solo di essi perché il soggetto possa considerarsi residente ai fini fiscali nel territorio dello Stato”.
[2] La Corte di Cassazione (Sentenza n. 3604 del 16 giugno 1984), ha, tra l’altro, affermato che:
− costituisce sede effettiva di una persona giuridica il “…luogo ove hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione…” della società e “…cioè il luogo deputato, o stabilmente utilizzato, per l’accentramento – nei rapporti interni e con i terzi – degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e della propulsione dell’attività dell’ente…”;
− detta sede effettiva di una società “…non coincide con il luogo in cui si trova un recapito della medesima, oppure una persona che genericamente ne cura gli interessi o sia preposta ad uffici di rappresentanza, dipendenze o stabilimenti, ma si identifica con il luogo dove si svolge la preminente attività direttiva ed amministrativa dell’impresa…” (Sentenza della Corte di Cassazione n. 3910 del 9 giugno 1988).
[3] Sentenza della Corte di Cassazione del 16 giugno 1984, n. 3604
[4] Sentenza della Corte di Cassazione del 9 giugno 1988, n. 3910
[5] Si vedano le sentenze della Corte di Cassazione n. 10243 del 4 agosto 2000, del Tribunale Genova, 2 maggio 2007, del Tribunale di Bari, Sez. I, 3 ottobre 2006.
[6] Vgs. Corte d’Appello di Milano, 20 dicembre 1966; Tribunale di Genova, 31 marzo 1967.
[7] Vgs. Commissione Tributaria Centrale - Sentenza del 10 ottobre 1996, n. 4992.
 
[8] Per ciò che attiene alla prova contraria, l’Agenzia delle Entrate ha precisato, con la circolare n. 28/E del 4 agosto 2006, gli elementi utili a superare la presunzione stessa. In dottrina, cfr., G. ODETTO, G. VALENTE, La presunzione di residenza fiscale in Italia delle holding estere controllate o amministrate da soggetti italiani, Pratica Fiscale e Professionale, 2006, 18, secondo i quali, in tema di prova contraria da fornire in sede di accertamento all’Amministrazione finanziaria, “il contribuente dovrà dimostrare "con argomenti adeguati e convincenti" l'esistenza di elementi di fatti, situazioni od atti, idonei a dimostrare un concreto radicamento della direzione effettiva nello Stato estero. Tra gli elementi costitutivi del concetto di sostanza si richiamano, tra gli altri:
-  segni distintivi all'entrata della sede sociale;
-  oggetto sociale suscettibile di dare luogo ad un'attività imprenditoriale reale compatibile con la struttura
societaria;
-  regolarità delle attività relative alla vita sociale (consiglio di amministrazione e assemblee dei soci);
-  maggioranza dei componenti del consiglio di amministrazione residenti;
-  attività amministrativa centralizzata nel luogo della sede sociale.
E ancora:
-  gestione operativa effettuata sul posto;
-  possesso delle idonee autorizzazioni amministrative per l'esercizio dell'attività concesse dalle autorità locali;
-  assunzione di personale e relative mansioni svolte;
-  disponibilità di locali ad uso civile o industriale e relativi contratti di locazione;
-  conti correnti bancari presso istituti locali;
-  altri contratti e utenze.
    Qualche ulteriore considerazione deve essere effettuata nel caso di holding "statiche" o di società di mera detenzione di partecipazioni; è, infatti, evidente che per tale tipologia di società non sono necessarie particolari strutture produttive.
    In tal caso, assume rilevanza determinante la circostanza che le assemblee (e i consigli di amministrazione o i comitati esecutivi) siano tenuti all'estero (in questo senso la sentenza della Corte di Cassazione 19.4.2000 n. 1156)”.
    Ancora l’Agenzia delle Entrate richiama quanto espresso nella Risoluzione n. 312/E del 5.11.2007 in merito alla dimostrazione della prova contraria, la quale può essere fornita sulla base non solo del dato documentale, ma anche sulla base di tutti gli elementi concreti di cui risulti, in particolare, il luogo in cui le decisioni strategiche, la stipulazione dei contratti e le operazioni finanziarie e bancarie sono effettivamente realizzate.
[9] La circolare 28/E del 4 agosto 2006, con riferimento ai requisiti necessari per sorreggere la presunzione di
    esistenza nel territorio dello Stato della sede dell’amministrazione delle società, precisa che “(…) si tratta, infatti, di elementi già valorizzati nella esperienza interpretativa e applicativa, sia a livello internazionale che nazionale. Essi si ispirano sia a criteri di individuazione dell’effective place of management and control elaborati in sede OCSE, sia ad alcuni indirizzi giurisprudenziali.”. Cfr. D. STEVANATO, La presunzione di residenza delle società esterovestite: prime riflessioni critiche, Corriere Tributario 37/2006, 2952, laddove l’autore afferma che “(…) Gli «elementi sintomatici» della direzione effettiva dell’ente individuati dal decreto legge n. 223/2006 non appaiono irragionevoli: la residenza italiana della maggior parte degli amministratori può infatti indurre a ritenere che le decisioni strategiche dell’ente siano in effetti assunte nel luogo in cui dimorano stabilmente ed operano gli amministratori, al di là del luogo in cui si tengono le riunioni del consiglio. La residenza del socio di controllo quale elemento sintomatico della direzione effettiva dell’ente sembra richiamarsi al concetto di «direzione e coordinamento».
 
[10] Giuseppe MARINO, La residenza delle persone giuridiche nel diritto tributario italiano e convenzionale, in diritto e pratica tributaria, 1995, volume I, pagina 1463.
[11] E. SIMONETTO, Delle società, in Commentario al codice civile (a cura di Scialoja e Branca), Bologna, 1976, pagina 389.
[12] G. MARINO, La residenza nel diritto tributario, cit., pagina 108.
[13] G. MARINO, La residenza nel diritto tributario, cit..
[14] Giuseppe MARINO, La residenza nel diritto tributario, cit., pag. 160 e 161
[15] A tal proposito, sempre la Risoluzione n. 312/E del 5 novembre 2007 ha precisato che “ …in merito alle interrelazioni tra la norma in commento e le norme convenzionali, non si ravvisano profili di contrasto. La citata Convenzione non impone agli Stati contraenti di scegliere determinati criteri di collegamento soggettivo per stabilire la residenza di un soggetto sul proprio territorio in luogo di altri, ma si limita a dirimere casi di doppia imposizione nel caso di doppia residenza, attribuendo rilevanza al criterio della sede di direzione effettiva. In proposito, come chiarito dal paragrafo 24 del Commentario all’articolo 4 del Modello OCSE, al fine di determinare la sede di direzione effettiva, non è possibile stabilire una regola precisa, ma devono essere presi in considerazione tutti i fatti e le circostanze. Coerentemente con quanto affermato nel Commentario, l’Amministrazione finanziaria ha da sempre sostenuto, fornendo sul punto un chiarimento nelle “osservazioni” contenute nel Commentario all’articolo 4 del Modello OCSE, che per determinare la sede della direzione effettiva di un ente non si deve fare esclusivo riferimento al luogo di svolgimento della prevalente attività direttiva e amministrativa, ma occorre prendere in considerazione anche il luogo ove è esercitata l’attività principale”
[16] Sulla possibile presenza di doppia imposizione, nel caso di attrazione della residenza del soggetto estero nel territorio domestico, la Circolare Assonime 31 ottobre 2007, n. 67 afferma che “…Per quanto nulla sia cambiato sul piano sostanziale, è chiaro, peraltro, che con questo nuovo strumento operativo gli uffici potranno compiere accertamenti mirati sulle fattispecie individuate dalla norma presuntiva e non è da escludersi che – ove i contribuenti non riescano a fornire adeguata prova in senso contrario – aumentino in futuro le ipotesi di ricollocazione in Italia della residenza di società ed enti esteri. E’ appena il caso di osservare, al riguardo, per mera completezza, che ove insorgano conflitti tra le potestà impositive degli Stati interessati, ossia tra il Paese nel quale il soggetto estero ha la sede legale e lo Stato italiano, essi potranno trovare composizione solo attraverso apposite procedure amichevoli instaurate tra gli Stati interessati, mediante le quali la residenza ai fini convenzionali sarà attribuita ad uno dei due Stati. Nelle more di queste procedure, potrebbero, in linea di principio, verificarsi fenomeni di doppia imposizione in presenza di imposte eventualmente assolte all’estero dal soggetto che, per effetto della presunzione e del suo mancato superamento, debba considerarsi residente in Italia. Al riguardo, è dubbio che tali imposte possano risultare accreditabili attraverso le eventuali disposizioni convenzionali a tal fine esistenti, posto che il funzionamento di tali disposizioni presuppone la concorde ripartizione delle reciproche potestà impositive degli Stati contraenti”.
Inoltre la circolare 28/E del 04 agosto 2006 recita: “… non si ravvisano profili di contrasto con le convenzioni contro le doppie imposizioni, stipulate dall’Italia. Queste ultime, infatti, non interferiscono con i differenti criteri di collegamento soggettivo che ciascuno stato seleziona per stabilire la residenza di un soggetto sul proprio territorio, limitandosi a indicare quali elementi e circostanze devono essere, prioritariamente, valutati in ipotesi di doppia residenza. L’effettiva sede dell’amministrazione è uno di questi elementi. Per di più esso è quello determinante per l’attribuzione della residenza di soggetti diversi dalle persone fisiche. La reale presenza della sede dell’amministrazione nell’uno o nell’altro ordinamento implica, poi, accertamenti di merito e diventa una mera questione di prova a valutare sulla base dei principi interpretativi, affermatisi a livello internazionale … Gli elementi su cui si fonda la presunzione – relativa – introdotta dalla norma in esame si richiamano a quei principi, senza escludere che possano essere di volta in volta valutati altri aspetti, dati e circostanze.”


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