Appalto di Manodopera

A.  Intermediazione di manodopera
 

In relazione ai fatti sopra rappresentati, si ritiene utile accennare, di seguito, al contesto giuridico concernente il fenomeno dell’illecito appalto di manodopera.

(1)  La disciplina della materia ante “Riforma Biagi”.  La Legge nr. 1369/1960
 
Nell’ordinamento giuridico italiano l’appalto di manodopera era espressamente  vietato dall’art. 1 della Legge 23 ottobre 1960, nr. 1369 (in vigore sino al 23 ottobre 2003), che considerava appalto di mere prestazioni di lavoro ogni  forma di appalto o subappalto in cui l’appaltatore impiegava capitali, macchine ed attrezzature forniti dall’appaltante, quando anche per il loro uso venisse  corrisposto a quest’ultimo un compenso, qualunque fosse la natura delle  prestazioni.
L’imprenditore, quindi, non poteva affidare in appalto, in sub appalto od in  qualsiasi altra forma, anche a società cooperative, l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante l’impiego di manodopera assunta e retribuita  dall’appaltatore o dall’intermediario, qualunque fosse la natura dell’opera o del servizio cui le prestazioni si riferivano.
Il legislatore, in sostanza, intendeva colpire i fenomeni di interposizione nel  lavoro, che si verificano quando l’imprenditore diventa diretto ed immediato destinatario di prestazioni di lavoro, effettuate dal lavoratore assunto e retribuito  da altri.
Infatti, se il datore di lavoro potesse avvalersi di mere prestazioni di  manodopera, assunte e retribuite da intermediari o da soggetti interposti, non assumerebbe la conseguente posizione obbligatoria e dunque la responsabilità diretta nei confronti dei lavoratori che effettuano dette prestazioni. Si  assicurerebbe altresì forza lavoro a costi minori e senza rigidità legislative.
I lavoratori, a loro volta, dovrebbero poi fare affidamento sulle capacità  economiche non necessariamente e non sempre certe dell’intermediario.
Quest’ultimo potrebbe anche assicurarsi una parte del compenso che, senza la  propria intermediazione, andrebbe invece a vantaggio dei lavoratori.
 
In particolare, la legge del 1960 intendeva colpire non solo la semplice fornitura  di manodopera assunta dal datore di lavoro interposto ed impiegata sotto la direzione dell’imprenditore interponente (c.d. “somministrazione manodopera”) ma anche l’utilizzazione di manodopera assunta e diretta da un  appaltatore interposto (c.d. “pseudo appalto”).
 
Al riguardo è bene precisare che l’appalto – secondo la definizione dell’art. 1655 del Codice Civile - “è il contratto con il quale una parte assume con organizzazione di mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in denaro”.
La prestazione dedotta in contratto, dunque, è una prestazione di lavoro in  senso lato;  peraltro tale lavoro è considerato nel suo risultato finale e non nel successivo svolgimento.
In tal modo, l’appalto si distingue dal contratto di lavoro subordinato, poiché si deduce in contratto non la prestazione di lavoro, ma il servizio o l’opera direttamente compiuti per il tramite della prestazione stessa. Inoltre, mentre nel contratto di appalto il lavoro è prestato in modo autonomo e con rischio a carico del prestatore, nel contratto di lavoro subordinato si ha attività lavorativa prestata alle dipendenze di un imprenditore, sul quale ricade il rischio d’impresa.
 
In conclusione, la caratteristica dell’appalto, consiste nell’assicurare al committente un determinato risultato di lavoro operando in posizione di  autonomia, con propria organizzazione d’impresa ed assumendo i relativi rischi  di gestione.
Al fine di impedire fenomeni di elusione delle norme protettive dei lavoratori subordinati, la Legge nr. 1369/1960 era quindi intervenuta a disciplinare l’impiego della manodopera negli appalti di opere e servizi, precedentemente già affrontato e disciplinato dall’art. 2127 del C.C..
In base alla normativa in esame era quindi lecito appaltare opere e servizi,  anche attinenti al ciclo produttivo dell’impresa committente, purché il soggetto interposto fosse qualificabile come imprenditore a tutti gli effetti, nel senso che  allo stesso facessero capo l’organizzazione dei mezzi necessari per l’esercizio dell’attività, il relativo rischio d’impresa ed i poteri decisionale e direttivo nei confronti dei lavoratori dipendenti.
In altre parole, non era possibile introdurre diaframmi di carattere formale tra chi  fornisce e chi utilizza in modo diretto ed originario l’attività lavorativa.
Ispirandosi a tale presupposto, la legge in esame distingueva tre fattispecie: interposizione illecita (o pseudo appalto), appalti leciti con obbligazione solidale  dell’appaltante, appalti leciti senza obbligazione dell’appaltante.
Ne conseguiva che, nel caso in cui il soggetto interposto (impresa appaltatrice)  non fosse stato qualificabile come imprenditore a tutti gli effetti, in quanto non in  possesso dei requisiti innanzi evidenziati, si sarebbe rientrati nel divieto stabilito  dalla normativa in questione.
 
In deroga al divieto previsto dalla citata Legge nr. 1369/1960, la Legge 24 giugno 1997, nr. 196  (“Norme in materia di promozione dell’occupazione”) aveva legittimato, in determinati casi, imprese private iscritte in apposito albo  nazionale (c.d. “Agenzie di lavoro interinale”), a mettere a disposizione di altre imprese (c.d. “utilizzatrici”) l’opera di prestatori di lavoro temporaneo assunti dalla prime ai quali era assicurato il trattamento retributivo e previdenziale  vigente nelle seconde.
 
Nei confronti delle imprese che fornivano od utilizzavano prestazioni di lavoro al  di fuori dei casi e dei limiti previsti dalla menzionata Legge nr. 196/1997,  continuava ad applicarsi la Legge nr. 1369/1960.
 
(2)    La “Riforma Biagi”.  Delega in materia di occupazione e mercato del lavoro.
 
Il D. Lgs. 10 settembre 2003, nr. 276, “Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla Legge 14 febbraio 2003, nr. 30 (c.d. “Legge Biagi”)”, recante nuove disposizioni in materia di lavoro, in vigore dal  24 ottobre 2003, ha previsto tra l’altro l’abrogazione della precedente Legge nr. 1369/1960 che regolava la materia e degli articoli dall’1 all’11 della Legge nr. 196/1997.
Tale riforma, oltre all’eliminazione di tutta la normativa in materia di illecita interposizione di manodopera, introduce un nuovo sistema sanzionatorio per le violazioni delle disposizioni di somministrazione e di appalto di lavoro.
Dalla lettura della relazione di accompagnamento al decreto di attuazione della “Riforma Biagi” si rileva chiaramente come intento del legislatore sia quello di rendere trasparente il mercato del lavoro.
Nella predetta relazione viene tuttavia confermato che le misure contenute nel nuovo provvedimento mantengono, a tutela dei lavoratori, una chiara ispirazione antifraudolenta, rifacendosi, in particolare, all’obiettivo indicato dalla legge delega di vietare ipotesi di intermediazione od interposizione nei rapporti di lavoro, volte a ledere i diritti dei lavoratori.
Il D. Lgs. nr. 276/2003, con le ultime modifiche apportate dal D. Lgs. 6 ottobre  2004, nr. 251, detta quindi precise disposizioni in materia di somministrazione di  lavoro e di appalto, consentendo l’introduzione di nuovi modelli di gestione del  personale imperniati su rapporti con agenzie specializzate e debitamente autorizzate nella fornitura di parte della forza lavoro di cui le aziende abbisognano alimentare processo produttivo, nonché la regolamentazione efficiente dei processi d’appalto.
In particolare, per quanto d’interesse in merito all’appalto, si riporta il testo del  primo comma dell’art. 29 del citato decreto: “ai fini dell’applicazione delle norme contenute nel presente titolo, il contratto d’appalto stipulato e regolamentato ai sensi dell’art. 1655 del codice civile, si distingue dalla somministrazione di lavoro per l’organizzazione dei mezzi necessari da parte  dell’appaltatore, che può risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati  nell’appalto, nonché per l’assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d’impresa.
In merito, si sottolinea come, con tale disposto, venga ribadito che, per  distinguere     l’appalto        dalla   somministrazione    di lavoro, assuma massima rilevanza il carattere dell’imprenditorialità, che deve essere sempre rintracciabile in capo all’appaltatore al fine di attribuire liceità al negozio giuridico in precedenza citato come peraltro già previsto nella precedente normativa. Nel caso in cui, quindi, non vengano integrati gli estremi del contratto di appalto previsti dal predetto dettato normativo, si ricade quindi nella fattispecie “dell’appalto illecito”.
 
In ordine al nuovo sistema sanzionatorio riferito alle violazioni delle disposizioni in materia di somministrazione ed appalto di lavoro, si evidenzia che il citato D.Lgs nr. 276/2003, come già rilevato, è stato successivamente modificato ed integrato dal D.Lgs 6 ottobre 2004, nr. 251, entrato in vigore a far data dal 6 ottobre 2004, venendo quindi a crearsi una successione di leggi nel tempo ed in particolare:
 

  • dal 24 ottobre 2003 al 25 ottobre 2004:
    •  nel caso in cui non vengano integrati gli estremi del contratto d’appalto previsti dal predetto dettato normativo, si ricade nella fattispecie della somministrazione di lavoro, la quale se posta in essere da soggetti non autorizzati ai sensi dell’art. 4, viene sanzionata dall’art. 18, 1° c. con la pena dell’ammenda di € 5,00 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di lavoro;
    •  il comma 2 del predetto art. 18, analogamente a quanto già previsto dalla Legge nr. 1369/1960, prevede anche nei confronti dell’utilizzatore  - che ricorra alla somministrazione di prestatori di lavoro da parte di soggetti diversi da quelli abilitati previsti dall’art. 4, 1° c. o comunque al di fuori dei limiti previsti – la pena dell’ammenda di € 5,00 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata lavorativa; 
  • dal 26  ottobre 2004:
    • viene confermato l’impianto sanzionatorio per la somministrazione di lavoro posta in essere da soggetti non autorizzati ai sensi dell’art. 4 e seguenti con aumento della pena dell’ammenda ad € 50,00 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di lavoro, sia a carico del somministratore che dell’utilizzatore;
    • viene introdotto all’art. 18 il comma 5 bis il quale dispone che, nei casi di appalto privo dei requisiti di cui all’art. 29, 1° c. e di distacco privo dei requisiti di cui all’art. 30, 1° c., si ricada nella fattispecie dell’appalto illecito, per il quale l’utilizzatore ed il somministratore sono puniti, in analogia a quanto previsto dai commi 1 e 2 dello stesso art. 18, con la  pena dell’ammenda ad € 50,00 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di lavoro.

Giova ricordare che, per meglio delineare la distinzione tra appalto genuino ed  interposizione illecita, l’art. 84  del D. Lgs. nr. 276/2003 stabilisce che, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della norma il Ministero del Lavoro e  delle Politiche Sociale adotterà codici di buone pratiche ed indici presuntivi in tale materia proprio al fine di giungere, attraverso la rigorosa verifica della reale organizzazione dei mezzi e della effettiva assunzione del rischio d’impresa da parte dell’appaltatore, al puntuale discrimine delle due fattispecie.

In attesa dell’emanazione dell’apposito decreto ministeriale, il Ministero del  Lavoro, con propria circolare nr. 48 datata 15.12.2004 inerente chiarimenti operativi sulle Commissioni di certificazione dei contratti di lavoro di cui all’art.  75 del D. Lgs. nr. 276/2003, ha indicato delle linee guida per la formulazione del regolamento interno che ciascuna commissione dovrà adottare ed al quale dovrà poi attenersi per la certificazione dei contratti di lavoro. 
Alla predetta circolare viene quindi allegato un documento intestato “Linee  guida per la certificazione” che indica quali siano gli elementi utili da prendere in considerazione nella valutazione di ciascuna tipologia di contratto.
 
Nel contratto d’appalto dovranno essere quindi verificati: 

  • elementi del contratto:
    • attività appaltata;
    • durata presumibile del contratto;
    • dettagli in ordine all’apporto dell’appaltatore ed in particolare precisazioni  circa l’organizzazione dei mezzi necessari per la realizzazione dell’opera o del servizio dedotto in contratto;
  • apporto dell’appaltatore:
    • nel caso di contratti d’appalto concernenti lavori specialistici per i quali non risulta rilevante l’utilizzo di attrezzature o di beni strumentali, devono essere acquisite notizie in ordine al know-how aziendale e alle elevate professionalità possedute dal personale impiegato nell’ambito dell’appalto, nonché indicazioni sulle modalità di esercizio del potere organizzativo dei lavoratori;
    • l’appalto riferito ai rapporti di mono committenza deve essere attentamente valutato al fine di verificare se in capo all’appaltatore incomba l’organizzazione dei mezzi finanziari e se è rintracciabile il rischio d’impresa;
  • rischio d’impresa, indici: l’appaltatore ha già in essere un’attività imprenditoriale; l’appaltatore svolge propria attività produttiva ed opera per conto di diverse imprese;
  • obbligo solidale: deve essere richiamato l’obbligo solidale che vincola le parti contraenti in relazione ai trattamenti retributivi e contributivi dovuti alle maestranze impiegate nell’appalto;

 
B. Riflessi fiscali
 
(1)     In materia di obblighi del sostituto d’imposta
 
Nel caso in cui nell’appalto non vengano riscontrati i requisiti di genuinità dettati dall’art. 29, comma 1, del D.Lgs 276/03, si incorre nella somministrazione di manodopera che risulta normativamente ammessa solo in presenza di determinate condizioni previste dalla legge per cui, fuori da questa ipotesi tipiche e senza iscrizione all’albo delle agenzie autorizzate (art. 4 delle legge Biagi), la somministrazione di lavoro è da considerarsi irregolare.
 
In tali casi l’attuale ordinamento nazionale (Ministero del Lavoro  e delle Politiche Sociali con circolare nr. 7 del 22 febbraio 2005) contempla norme che tendono a responsabilizzare il reale utilizzatore della manodopera, attribuendogli tutti gli oneri contributivi e fiscali relativi al rapporto di lavoro, come previsto dall’art. 21 del D.Lgs n. 276/2003 il quale al comma 4, sancisce che in mancanza di forma scritta il  contratto di somministrazione (previsto dall’art. 20) è nullo ed i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’utilizzatore, ovvero di colui il quale si è avvalso effettivamente delle prestazioni rese dai lavoratori illecitamente somministrati.
 
In forza di tale principio, peraltro sancito dalla Cass. Civ., Sez. Unite, nella sentenza n. 22910 del 26 ottobre 2006, ai committenti vengono contestate violazioni in materia di sostituto d’imposta ed addebitate le ritenute d’acconto non operate e non versate in ragione di compensi riconosciuti, dovuti ai lavoratori utilizzati. Compensi che si accertano indirettamente corrisposti, attraverso l’appaltatore (pagamento fatture), in ragione di appalti che in realtà non sono mai stati realizzati.
 Analogamente, secondo l’art. 27, c. 1, del D.Lgs 276/03 “quando la somministrazione di lavoro avvenga al di fuori dei limiti e delle condizioni previste dalla norma, il lavoratore può chiedere, mediante ricorso giudiziale, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore, con effetto dall’inizio della somministrazione”.
 
Infine, con la predetta circolare è stato ribadito che, in base alla nuova normativa, in caso di appalto non genuino,  o di distacco fuori dai limiti individuati  dall’art. 30 del D. Lgs. nr. 276/2003, poiché tali fattispecie integrano una ipotesi di somministrazione senza autorizzazione e quindi irregolare, il legislatore ha  espressamente previsto che il lavoratore possa chiedere la costituzione del rapporto in capo all’utilizzatore con effetto dall’inizio della somministrazione. E’ evidente, peraltro, che nell’ipotesi in cui la somministrazione senza autorizzazione si concretizzi in assenza di un contratto scritto, il contratto di somministrazione deve comunque ritenersi nullo ed i lavoratori sono considerati alle dirette dipendenze dell’utilizzatore e questo indipendentemente dalla  supposta qualificazione del contratto come appalto ovvero dalla convinzione che l’invio del lavoratore presso il terzo integra la diversa ipotesi di distacco.
 
(2)     In materia di IRES
 
La fattispecie in questione integra una specifica ipotesi di reato di cui all’art.18, comma 2 e 5-bis del D. Lgs. 10 settembre 2003, nr. 276 (illecita  utilizzazione e somministrazione di manodopera attraverso la forma dell’appalto “non genuino”).
 Ciò rende applicabile la regola generale della “indeducibilità dei costi e delle  spese connesse a fatti che costituiscono reato”. 
L’art. 2, co. 8, della Legge 27 dicembre 2002 n. 289 (Finanziaria 2003) ha espressamente sancito la regola generale della indeducibilità dei costi e delle spese connessi a “fatti che costituiscono reato” aggiungendo all’art. 14 della Legge nr. 537/1993, che al comma 4 già prevedeva “la tassabilità dei proventi illeciti se non sottoposti a sequestro o confisca penale”, il comma 4-bis che recita: “nella determinazione del reddito d’impresa - ex art. 6, co. 1, del TUIR -, non sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l’esercizio dei diritti costituzionalmente legittimi.” 
 Inserendo il comma 4-bis nell’art. 14 citato, il legislatore ha quindi inteso ulteriormente specificare le modalità di tassazione dei proventi derivanti da attività illecite, ma solo con riferimento agli illeciti penalmente rilevanti.
 In tale ottica la disposizione in commento, pur se collegata a una norma a carattere interpretativo come quella del comma 4 dell’art. 14, deve essere considerata innovativa.
 
L’Amministrazione Finanziaria, nel fornire con la circolare nr. 42/E dell’Agenzia  delle Entrate – Direzione Centrale – Normativa e Contenzioso con circolare nr.  42/E del 26 settembre 2005 (avente ad oggetto “deducibilità di costi e spese riconducibili a fatti, atti o attività illecite – art. 2, comma 8, della Legge 27 dicembre 2002, n. 289”) la propria interpretazione ai contenuti della disposizione normativa in commento, ha ritenuto “tout court” indeducibile ogni costo da attività penalmente rilevante eccezion fatta per i costi sostenuti per l’esercizio dei diritti costituzionalmente garantiti, quali, ad esempio, le spese necessarie per l’assistenza legale in tutte le fasi del procedimento e del processo penale.
 Tale norma si rende applicabile in particolare in sede di determinazione del reddito d’impresa e di lavoro autonomo e, in generale, con riferimento a quelle fattispecie reddituali per le quali la norma tributaria prevede la deducibilità delle spese specificatamente inerenti la produzione.
 
Con riferimento al reddito d’impresa, si ricorda che i costi e le spese sono deducibili secondo i principi ordinari, tra cui quello dell’inerenza, stabiliti dall’art. 109 del Tuir.
 In tale contesto, quindi, il comma 4-bis, che secondo la circolare “si caratterizza per un intento indirettamente sanzionatorio dell’attività illecita”, vieta la deducibilità di costi e spese comunque inerenti all’attività e funzionali alla produzione dei relativi proventi, nel caso in cui l’attività nel suo complesso, ovvero il singolo atto o fatto illecito costituisca un illecito penalmente rilevante.
 
Atteso che la norma fa riferimento a costi e spese “riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato”, nel caso in cui l’illiceità coinvolga la complessiva attività esercitata dal contribuente, l’indeducibilità riguarderà tutti i costi e le spese sostenuti in relazione all’attività stessa; diversamente nel caso in cui l’illiceità coinvolga solo uno o più “fatti o atti” nell’ambito della propria attività illecita, l’indeducibilità riguarderà sia i costi e le spese a questi specificatamente afferenti, sia una quota dei costi riconducibili all’attività in generale ossia comuni a più fatti o atti, alcuni leciti e altri illeciti. In tale ultima ipotesi, la quota indeducibile dovrà essere determinata con criteri di proporzionalità in relazione alla fattispecie esaminata.
 
La citata circolare, nel semplificare i principi sopra esposti, prende, tra l’altro, in considerazione la fattispecie di un’attività manifatturiera che utilizza lavoratori non regolari, affermando che “il costo delle retribuzioni di tali lavoratori non può essere dedotto in quanto riconducibile ad un’attività qualificabile come reato, anche se l’impresa in sé non è illecita”.
 Ritenuto che l’utilizzo di “lavoratori non regolari” costituisca reato nelle sole ipotesi previste dagli artt. 18 e ss. del D.Lgs. n. 276/2003, è evidente che l’esempio fornito dalla circolare non può che riferirsi alla fattispecie dell’illecita fornitura di manodopera. 
 
(3)     In materia di IRAP
 
Quale ulteriore immediata conseguenza, i costi sostenuti in relazione ai contratti  di appalto o subappalto non genuini devono quindi esser ricondotti, per  l’effettivo datore di lavoro, tra quelli di cui all’art. 95 del D.P.R. nr. 917/1986 -  alla voce “Per il personale - salari e stipendi” dei bilanci d’esercizio e non tra quelli di cui alla voce “B7) Costi della produzione - Per servizi”.
 Pertanto, in base alla normativa vigente ed in particolare agli articoli 5 ed 11 del D.Lgs. nr. 446/1997, detti costi non concorrono alla determinazione della base imponibile  I.R.A.P..
 
(4)     In materia di I.V.A.
 
Per l’indebita detrazione da parte delle imprese beneficiarie della manodopera dell’I.V.A. esposta nelle fatture emesse dalle imprese “appaltatrici” (in quanto le operazioni in parola sono fuori dal campo di applicazione dell’IVA, poiché riconducibili ad attività di lavoro dipendente).


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